E’ possibile proporre ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo per violazione dell’Art. 6 (“giusto processo”) in caso di contraddittorietà delle testimonianze “decisive” per la valutazione dell’affermazione della responsabilità penale? (Dott. Valeriano Aquino)
Dalle vicende fattuali si evince che durante il processo penale uno o più testimonianze rese contro l’imputato siano da lui ritenute contraddittorie, ma non dal giudice, che pronuncia sentenza di condanna. Occorre, in via preliminare, verificare se l’eventuale contraddittorietà di queste testimonianze viola o meno l’art. 6 della CEDU.
In secondo luogo, dopo aver risolto la problematica preliminare, si rende necessario accertare se in sede d’Appello la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale è obbligatoria in caso di richiesta di riassunzione di prove già acquisite da parte del ricorrente e se, in caso di risposta affermativa, il diniego del giudice può dar luogo a un ricorso per violazione dell’art. 6 CEDU.
Pare opportuno, dunque, inquadrare la vicenda che viene in rilievo nel caso de quo esaminando la cornice normativa di riferimento di cui agli artt. 6 CEDU e 603 c.p.p.
La “Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali” è stata firmata a Roma il 4 novembre 1950 dai Paesi fondatori del Consiglio di Europa. Attualmente, la Convenzione è stata ratificata da 47 Paesi. Tale Convenzione costituisce ius commune, pertanto è estendibile a qualsiasi altro ordinamento anche fuori dall’Europa.
Attraverso la Convenzione sono stati recepiti all’interno di un documento normativo una serie di principi considerati dal comune sentire umano fondamentali, universali, inviolabili e inalienabili: diritto alla vita, alla libertà, alla sicurezza, a un equo processo, divieto di tortura, schiavitù, lavori forzati, discriminazione e abuso di diritti, libertà di pensiero, coscienza, religione, espressione, riunione e associazione, nonchè il principio del nullum crimen sine lege.
La Convenzione europea dei diritti dell’uomo consente ai singoli individui di ottenere una concreta tutela contro gli Stati, nelle materie relative ai diritti fondamentali, attraverso il diritto al ricorso individuale contro lo Stato contraente. Pertanto, ogni individuo soggetto alla giurisdizione di uno Stato, che lamenti una violazione da parte dello Stato stesso può, una volta esaurite le vie di ricorso interne, rivolgersi alla Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU). La Convenzione fa riferimento agli “individui” e non ai cittadini, in quanto la tutela è estesa a ogni essere umano che si trovi sotto la giurisdizione dei Paesi firmatari.
Particolarmente importante è il carattere evolutivo/dinamico dell’ordinamento costituito attraverso la Convenzione: ciò significa che i giudici di Strasburgo interpretano la legge e i principi della Convenzione alla luce della società europea di oggi, e non di quella al momento dell’elaborazione della Convenzione stessa.
La CEDU può essere adita per decidere su due tipi di ricorsi: i ricorsi interstatali e i ricorsi individuali. I primi riguardano i casi in cui uno degli Stati firmatari della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo abbia intenzione di denunciare un altro Stato firmatario per la violazione dei principi contenuti nella Convenzione stessa; i secondi, invece, riguardano i casi in cui una persona fisica, un’organizzazione non governativa o un gruppo di privati, che sostengono di essere vittima di una violazione della Convenzione da parte di uno degli Stati contraenti, decidono di denunciare quest’ultimo. I soggetti legittimati a proporre ricorso sono le “vittime”, si considerano tali non solo le vittime dirette della violazione, ma anche ogni altra vittima indiretta alla quale la presunta violazione cagionerebbe un pregiudizio.
La CEDU può occuparsi solo delle doglianze relative ai diritti elencati nella Convenzione, pertanto, non svolge il ruolo di giudice di appello, non esamina le decisioni dei tribunali nazionali e non ha la possibilità di annullare o modificare le decisioni assunto dall’autorità giudiziaria nazionale. Inoltre, non ha facoltà di intervenire direttamente presso l’autorità nazionale per censurarne il comportamento comminando sanzioni. Tuttavia, con riferimento alla violazione dell’art. 6, come nel caso de quo, la Corte ritiene che quando un soggetto sia stato vittima di un procedimento nel quale non siano state rispettate le esigenze espresse dal principio del “giusto processo”, un nuovo processo, ovvero la riapertura del procedimento a richiesta dell’interessato, costituiscano il mezzo più appropriato per porre rimedio alla violazione (Corte europea, 18/01/2011, Guadagnino contro Italia e Francia, ricorso n. 2555/03).
Si possono presentare istanze alla CEDU solo per atti di una pubblica autorità (Parlamento, amministrazione, giustizia, ecc) di uno degli Stati contraenti: la Corte, pertanto, non può esaminare doglianze dirette contro privati o istituzioni private.
Infine, il ricorso individuale, può essere presentato alla CEDU da persona fisica o giuridica che sia stata parte in una controversia davanti ai giudici nazionali e solo dopo che siano esauriti tutti i possibili rimedi giurisdizionali nazionali, di regola fino alla sentenza definitiva in Cassazione e, comunque, non oltre il termine perentorio di sei mesi, a decorrere dalla data di pubblicazione della sentenza. Tuttavia, in casi eccezionali, il ricorrente può rivolgersi direttamente alla CEDU senza il bisogno dell’esaurimento delle vie di ricorso interne, ad esempio quando risulta palese che il giudice nazionale non offra adeguata tutela ai diritti sanciti dalla Convenzione (Corte europea, 5/10/2006, Preziosi contro Italia, ricorso n. 67125/01).
La Corte si pronuncia a maggioranza dei propri membri. La sentenza emessa dalla Grande Camera della CEDU è sempre definitiva. Invece, le sentenze pronunciate dalla singole Camere diventano definitive una volta scaduti i termini per l’impugnazione (trascorsi 3 mesi dalla pronuncia senza che sia stato presentato ricorso alla Grande Camera). Tuttavia, le sentenze delle camere diventano definitive anche se il Collegio della Grande Camera respinge la richiesta di rinvio formulata secondo l’art. 43 della Convenzione stessa.
Caratteristica delle sentenze della CEDU è la possibilità di stabilire un risarcimento dei danni materiali e morali subiti dal ricorrente a carico del Paese che abbia violato la Convenzione. Per ottenere tale risarcimento del danno il ricorrente deve dimostrarne l’entità, in quanto la Corte, in assenza di specifiche richieste da parte dell’istante, non è tenuta a liquidare alcunché, dato che non ha l’obbligo di verificare e quantificare il danno d’ufficio.
Entro il termine di tre mesi a decorrere dalla data della sentenza di una Camera, ogni parte della controversia può chiedere che il caso sia rinviato alla Grande Camera. Se la questione oggetto del ricorso solleva problemi di interpretazione o di applicazione della Convenzione, un collegio di cinque giudici della Grande Camera accoglie la domanda e la Grande Camera si pronuncia sul caso con sentenza.
La CEDU ha costantemente respinto le richieste avanzate dai ricorrenti di ottenere condanne al pagamento dei danni punitivi, vale a dire pronunzie che condannano gli Stati non solo al risarcimento dei danni, ma anche al pagamento di una somma di denaro maggiore. Questo perché la ratio delle pronunzie di condanna della Corte è quella di produrre un effetto dissuasivo e “pedagogico”, più che un mero risarcimento economico.
Nel Titolo I e all’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali troviamo il Diritto ad un equo processo: “Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge (…). La sentenza deve essere resa pubblicamente, ma l’accesso alla sala d’udienza può essere vietato alla stampa e al pubblico durante tutto o parte del processo (…). Ogni persona accusata di un reato è presunta innocente fino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente accertata. Ogni accusato ha diritto a: essere informato, nel più breve tempo possibile, in una lingua a lui comprensibile e in modo dettagliato, della natura e dei motivi dell’accusa elevata a suo carico; disporre del tempo necessario a preparare la sua difesa; difendersi personalmente o avere l’assistenza di un difensore a sua scelta e, se non ha i mezzi per retribuire il difensore, poter essere assistito gratuitamente da un avvocato d’ufficio, quando lo esigono gli interessi della giustizia; esaminare o far esaminare i testimoni a carico ed ottenere la convocazione e l’esame dei testimoni a discarico nelle stesse condizioni dei testimoni a carico; farsi assistere gratuitamente da un interprete se non comprende o non parla la lingua usata all’udienza”.
Dall’art. 6 CEDU discendono una serie di enunciati da rispettare nel corso del processo: il principio della “parità delle armi” e del contraddittorio, che è una delle garanzia fondamentali del procedimento penale, che si attua mediante la possibilità di replicare alle osservazioni della controparte, il principio della pubblicità, che consiste nella tutela dei cittadini da ogni forma di “giustizia segreta” che sfugge al controllo della collettività e il principio dell’indipendenza, e oggettiva imparzialità del tribunale, che si pone in essere attraverso l’esistenza di una protezione da pressioni che provengono dall’esterno.
Terminata l’analisi dall’art. 6 CEDU occorre verificare se e in che misura è possibile configurare in capo al giudice nazionale la violazione del principio del “giusto processo” in caso di contraddittorietà delle testimonianze c.d. “decisive”.
La nozione di “testimone” della Convenzione assume un significato più ampio rispetto a quella del diritto nazionale e include i coimputati, le vittime, i periti e gli agenti di polizia. Inoltre, l’art. 6 può essere applicato anche alle prove documentali inclusi i verbali redatti dall’agente incaricato dell’arresto.
Poiché l’ammissibilità delle prove è disciplinata dal diritto interno e dai giudici nazionali, l’unico compito della CEDU, ai sensi dell’art. 6 della Convenzione, consiste nel determinare se la procedura sia stata equa.
In virtù dell’art. 6 CEDU, prima che un imputato possa essere dichiarato colpevole, tutti gli elementi a suo carico devono essere prodotti dinanzi a lui, in pubblica udienza, in un dibattimento e in contraddittorio. Inoltre, deve essere data all’imputato adeguata possibilità di contestare le testimonianze a suo carico e di interrogare gli autori al momento della loro deposizione o in una fase successiva.
Le testimonianze “decisive” devono essere intese in senso stretto, come quelle che da sole sono dirimenti per l’esito della controversia. La valutazione del carattere decisivo e determinante di una testimonianza dipenderà anche dal valore probatorio degli altri elementi a carico dell’imputato: più questi elementi saranno probanti, meno la deposizione del testimone potrà essere considerata determinante.
Poiché la CEDU, come poc’anzi sottolineato, non è un giudice di quarto grado, per decidere sull’importanza di una decisione testimoniale per la condanna di un ricorrente essa deve partire dalle decisioni dei giudici nazionali. La Corte deve, quindi, verificare la valutazione dei giudici nazionali alla luce dei criteri di apprezzamento dell’importanza delle testimonianze come prova e garantire che la valutazione fatta dai giudici nazionali del peso della prova non sia arbitraria.
Quando nel corso di un procedimento un testimone fa una dichiarazione preliminare e poi ritratta sulla stessa, o dice di non ricordare più i fatti quando viene contro-interrogato al processo, non si considera automaticamente violato l’art. 6 CEDU. In altre parole, un cambiamento di atteggiamento da parte del testimone non impone di per sé la violazione del diritto al “giusto processo”. Secondo la Corte, infatti, la deposizione di un testimone sotto giuramente all’udienza non deve essere sempre preferita rispetto a quella dallo stesso posta in essere nel corso del procedimento penale, anche quando le stesse si contraddicono (Corte europea, 8/01/2019,Vidgen c. Paesi Bassi, ricorso n. 68328/17 e Corte europea, 5/12/2019, Makeyan e altri c. Armenia, ricorso n. 46435/09).
Inoltre, altre garanzie procedurali possono assumere una certa importanza, come ad esempio il principio della parità delle armi tra accusa e difesa nell’interrogatorio di un testimone che sia ritornato su una deposizione di importanza decisiva per la condanna del ricorrente (Corte europea, 16/04/2019, Bonder c. Ucraina, ricorso n. 18895/08).
La parità delle armi è uno degli elementi intrinseci della nozione di “processo equo”. In base a tale principio a ciascuna parte deve essere offerta la possibilità di esporre la propria causa in condizioni che non la pongono in una situazione di svantaggio rispetto alla controparte. In altre parole, il diritto a un processo in contraddittorio comporta, in linea di principio, la possibilità per le parti di conoscere e commentare tutti gli elementi di prova prodotti, in modo da orientare la decisione del tribunale.
Infine, secondo la Corte, quando la difesa insiste affinché un testimone sia sentito o un documento sia esaminato durante il processo, spetta al giudice nazionale decidere se sia necessario o auspicabile farlo. Il giudice nazionale è quindi libero di rifiutarsi di convocare e riascoltare i testimoni richiesti dalla difesa (Corte europea, 26/07/2011, Huseyn e altri c. Azerbaijan, ricorso n. 35485/05; Corte europea, 25/07/2013, Khodorkovskiy e Lebedev c. Russia, ricorso n. 11082/06 e Corte europea, 12/05/2016, Poletan e Azirovik c. ex Repubblica jugoslava di Macedonia, ricorso n. 16711/07).
Alla luce delle considerazioni finora svolte, sembra potersi concludere nel senso che, in caso di contraddittorietà delle testimonianze c.d. “decisive” valutate positivamente dal giudice in una sentenza di condanna penale, non sembra possibile poter ricorrere alla Corte europea dei diritti dell’uomo per violazione dell’art 6 CEDU in tema di “giusto processo”. In quanto, è la stessa Corte a lasciare al giudice nazionale un’ampia libertà nel rifiutarsi di convocare e/o riascoltare eventuali testimoni richiesti dalla difesa poiché essa, non svolgendo la funzione di giudice di quarto grado, non può entrare nelle decisioni dei tribunali nazionali e/o modificare le decisioni assunte dall’autorità giudiziaria nazionale di uno dei Paesi aderenti.
La Corte, inoltre, in numerosa, recente e autorevole giurisprudenza, ha più volte precisato che un cambio di atteggiamento da parte del testimone, che si esplica in una dichiarazione preliminare poi ritrattata o contraddittoria, non comporta la violazione dell’art. 6 CEDU, in quanto, la testimonianza deve essere valutata complessivamente senza preferire la deposizione sotto giuramento all’udienza piuttosto di quella posta in essere nel corso del procedimento penale nella sua complessità.
Nel libro Nono, al Titolo II, del Codice di procedura penale, troviamo l’art. 603, che disciplina la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale in Appello.
La rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale in appello ha carattere eccezionale e può avvenire su richiesta di una delle parti oppure d’ufficio su iniziativa del giudice.
Nel caso in cui una parte chiede la riassunzione di prove già acquisite in primo grado o l’assunzione di nuove prove (per “nuove prove” deve intendersi quelle prove preesistenti già conosciute nel giudizio di primo grado, ma non acquisite), il giudice può decidere se disporre la rinnovazione, valutando se egli sia o meno in grado di decidere allo stato degli atti. Tale riassunzione, pertanto, non è automatica e tantomeno obbligatoria: se il giudice ritiene di non poter decidere allo stato degli atti dispone la rinnovazione, altrimenti rigetta la richiesta di parte. Inoltre, il potere discrezionale del giudice se disporre o meno la rinnovazione, non è sindacabile in sede di legittimità, tranne che sotto il profilo motivazionale, qualora non abbia adeguatamente motivato la propria decisione.
Il giudice è, invece, obbligato a disporre la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale (secondo i criteri previsti per l’ammissione dei mezzi di prova in primo grado) nell’ipotesi in cui una parte chiede l’acquisizione di prove sopravvenute o scoperte dopo il giudizio di primo grado.
Infine, il giudice può disporre d’ufficio la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale qualora egli la ritenga assolutamente necessaria ai fini dell’accertamento del fatto.
Terminata l’analisi dell’art. 603 c.p.p. e applicando tali principi alla vicenda fattuale che ci occupa, appare evidente che la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale, in caso di richiesta da parte del ricorrente di riassunzione di prove testimoniali già acquisite nel dibattimento di primo grado, in quanto da lui ritenute contraddittorie, non è obbligatoria da parte del giudice.
Il Codice di procedura penale, infatti, tenuto conto che un “fatto” difficilmente presenta una consistenza oggettiva di natura astratta e asettica, lascia al giudice ampio margine di discrezionalità sulla rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale in caso di prove già acquisite nel dibattimento di primo grado.
Tanto è vero che autorevole giurisprudenza è concorde nel ritenere che il potere discrezionale del giudice nel disporre la rinnovazione non è sindacabile neanche in sede di legittimità, salvo che sotto il profilo della motivazione, qualora egli non abbia adeguatamente motivato le ragione del rigetto della richiesta.
La ratio di questa impostazione è dovuta al fatto che il legislatore riconosce al processo di appello un carattere di “controllo”, presumendo la completezza dell’acquisizione delle prove nel giudizio di primo grado.
Sulla scorta di quanto finora esposto appare potersi dare una risposta negativa anche al terzo quesito de quo, in quanto, il nostro Codice di procedura penale, lascia al giudice ampia discrezionalità sulla rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale in caso di prove già acquisite nel dibattimento di primo grado.
Il giudice, pertanto, non ha alcun obbligo di rinnovare l’istruttoria dibattimentale in caso di richiesta di riassunzione di prove già acquisite nel dibattimento di primo grado da parte del ricorrente, a prescindere dalle valutazioni di contraddittorietà di queste posta in essere dall’appellante nell’atto di appello.
Inoltre, non è neanche ammissibile il ricorso alla CEDU per violazione dell’art 6, in quanto, la Corte precisa in numerosa giurisprudenza che spetta al giudice nazionale decidere se sia necessario risentire o esaminare nuovamente un testimone durante il processo.
Secondo la Corte, quindi, il giudice nazionale è libero di rifiutarsi di convocare e riascoltare testimoni richiesti dalla difesa senza violare il principio del “giusto processo”.